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Viaggio in Turchia

|  Federico Sborchia  | La Turchia è un paese magico, diviso su due continenti e toccato da altrettanti mari. In Turchia potete godervi il fascino immortale di Istanbul, potete sperimentare alcune meraviglie naturali come le terme di Pamukkale e i camini delle fate . Potete anche regalarvi una vacanza di mare ad Antalya o a Bodrum ma soprattutto potete osservare fino a che punto può giungere la decadenza di un uomo e soprattutto di un calciatore. La Turchia è un gigantesco calderone di culture, un crocevia storico come pochi altri e la Süper Lig ne è una degna espressione: un grandissimo mix di giocatori di ogni dove che qua confluiscono quando sentono vicina la fine. In questo viaggio vi accompagneremo di città in città e di squadra in squadra. Adana | Adana Demirspor Adana è ciò che resta della vecchia Antiochia di Cilicia, girando per Adana potete trovare il bellissimo castello armeno di Yılankale ma anche una notevole distesa di grattacieli. Tra le altre cose ad Adana ha sede

Fenomenologia di un pibe


Da giorni il mondo si muove frastornato, a volte anche infastidito, dalla morte di Diego Armando Maradona.


Qualcuno col groppo in gola che non sembra volersi snodare, qualcun altro improvvisamente ridestato dalla sua abituale indifferenza verso l’universo del pallone, qualche altro ancora agitato da un’insofferenza inestinguibile perché il mondo, soprattutto di questi tempi, dovrebbe aver di meglio a cui pensare. Tutti, comunque, investiti da un evento inaspettato.

Chi o cosa sia stato Maradona è difficile da definire, come tutte le cose grandi. Ma di sicuro è stato qualcosa per tutti, senza distinzioni, come tutte le cose grandi. Si è spinto al di là, molto al di là, dei confini dentro cui si muove normalmente un calciatore. Chi vi scrive, ad esempio, non ha mai avuto la possibilità di apprezzarlo in attività, ma non per questo è rimasto immune – parola quantomai significativa in questi mesi – all’aura che ancora oggi, a giorni dalla sua morte, el Diego ha attorno a sé
.

Il problema con Maradona, nel momento in cui bisogna parlarne, è il rischio di cadere nella banalità di una retorica vuota. Che lo si chiami Dio, come ha voluto fare l’Équipe nella sua prima pagina, santo, fenomeno, si cade sempre in un’imprecisione, in una parola che non copre mai il personaggio per intero. Maradona sguscia via ai vocabolari come faceva con gli avversari, imprendibile. Persino a volerne raccontare i lati più discutibili, che pure lo hanno contraddistinto, si rimane con un pugno di sostantivi irrimediabilmente riduttivi.

Che fare, dunque? Lasciarsi andare ad una carrellata di immagini calcistiche: lo scudetto, i palleggi a ritmo di Life is live, gli abbracci e i baci ai suoi calciatori da commissario tecnico, la semifinale in Messico? Ripescare tutto l’involucro oltre il calcio, rimasto incastrato nella memoria collettiva: il marxismo zoppicante da milionario, il discorso di addio alla Bombonera, l’amore incessante di Napoli, le battaglie contro la Fifa? Rievocare le innumerevoli scorribande al di là del limite della moralità: la droga, le violenze, l’evasione fiscale, le accuse di stupro?


Non fare nulla è forse la scelta migliore. Accettare serenamente che non esista nessuno in grado di raccontare pienamente come tutto questo possa essersi amalgamato in un’unica esistenza. Anzi, che l’unico in grado di farlo si è spento alcuni giorni fa, a nord di Buenos Aires, davanti al Río de la Plata. Accettare che sia così, senza paura che la storia si perda, perché non è a parole che si è tramandata fino ad oggi e non sarà a parole che rimarrà per i posteri. In breve, lasciare che sia Maradona a parlare per sé, in terza persona, come amava fare.

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