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Viaggio in Turchia

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Kakà, l'ultimo fenomeno umano


L’eterno bambino è cresciuto, tanto che forse dovremmo iniziare a chiamarlo Ricardo e non più con quel vezzeggiativo che gli diede il suo fratellino, troppo piccolo per dire il suo nome per intero. Kaká ha detto basta e probabilmente con il suo ritiro possiamo dire conclusa un’era calcistica. L’era dei gruppi vincenti, dei fuoriclasse che erano solo la punta di diamante di squadre strepitose. L’era in cui il singolo poteva essere un fenomeno, ma valeva solo se messo in mezzo al gruppo.



Non è un caso che l’ultimo Pallone d’oro assegnato prima dei dieci divisi fra Messi e Ronaldo sia stato proprio di Kaká. Nel Real Madrid è avvenuto il passaggio di consegne, Ronaldo, arrivato nello stesso momento dell’ormai ex fantasista brasiliano, si prende la scena, si prende il Calcio. Si lancia in quel momento la rivalità che tiene banco ancora oggi. E si inaugura anche la nuova idea di fenomeno, quella del giocatore attorno a cui ruota la squadra intera e che ha sulle sue spalle tutto il peso dei risultati.


Kaká è stato l’ultimo grande interprete di un ruolo, dopo di lui sono nati i tuttofare, quelli che possono giocare in qualunque posizione. L’ultimo dei fenomeni visti come primus inter pares e non come unici fari all’interno del rettangolo verde. Il capitolo finale di un’idea di Calcio ormai desueta e che ci metterà del tempo a tornare di moda. 
Ha vinto tutto quello che c’era da vincere, ma lo ha fatto perché aveva attorno a sé dei campioni. Il mondiale lo ha ottenuto con un Brasile strabordante, la Champions con un Milan che adesso in molti rimpiangono.
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Certo, anche adesso i grandi campioni giocano in squadre di alto livello, sono circondati da grandissimi calciatori. Ma è un’altra filosofia, completamente diversa. In ogni partita per la maggior parte del pubblico ci sono solo loro al centro dell’attenzione, Barcellona–Real Madrid è Messi–Ronaldo. Potremmo chiamarlo feticismo del fenomeno.



Ricardo, invece, è sempre rimasto fedele a se stesso, senza mai andare oltre, senza mai sfociare nel sovrumano. Tutto ciò che ci si poteva aspettare da un fantasista brasiliano, Kaká lo faceva alla perfezione e senza uguali. Dribbling sempre pronto ed efficace, corsa straordinaria all’occorrenza e tiro il più delle volte chirurgico. Nel suo perimetro di giocata non lo si prendeva mai, ne sanno qualcosa Heinze ed Evra, che per provare a fermarlo nel 2007 sono finiti l’uno contro l’altro. Ma più in là di così on si spingeva, perché non ce n’era bisogno. Ora, invece, è l’unica cosa che conta. 


Non ha senso né rimpiangere il Calcio di una volta, come invece qualcuno si ostina a fare, né pretendere che il Calcio attuale si formi su quello di ere passate. Il tempo passa in ogni campo, anche su quello di pallone, e chi non lo sa accettare rimane solo indietro. Kaká lo sa bene, lo sente, e forse anche per questo ha deciso di chiudere la sua carriera. 



Il grande interrogativo che questo ritiro ci lascia è: a noi cosa resta? Tanto. Non bisogna sottovalutare il peso del passato. Ora siamo in quello che per molti è il Calcio stellare, il Calcio delle divinità, ma resterà quello che questo Calcio ha preceduto: il Calcio degli umani. E allora di Kaká restano le sue giocate, le sue corse, i suoi tiri, le sue mani puntate verso il cielo, quasi a voler conquistare anche quello. Ma non era ancora tempo per prendersi anche le stelle.

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